Allo scoppio della I guerra mondiale vi furono, in seno alle correnti anarchiche, alcune personalità che si staccarono dall’orientamento non interventista del movimento. Sull’argomento è interessante il lavoro svolto da Alessandro Luparini nel suo libro Anarchici di Mussolini.
Il primo tra i vari interventi “eterodossi” fu un articolo di Mario Gioda per il periodico “Volontà”, nel quale veniva notato l’improvviso e devastante fallimento dell’Internazionale e veniva dichiarata la necessità che, in caso di invasione austriaca dell’Italia, anche gli anarchici impugnassero le armi. A questo primo intervento seguì quello della “già paladina dell’antimilitarismo” Maria Rygier che in un altro articolo, questa volta per “Il libertario” di La Spezia, si entusiasmò per la fine della triplice alleanza e auspicò la guerra. La presa di posizione della Rygier non fu che la prefazione del “Manifesto degli anarchici interventisti” di cui ella stessa fu ispiratrice. Tra i firmatari dell’appello, oltre a esponenti del sindacalismo, a socialisti dissidenti e ai repubblicani, figurava una personalità che rivestirà un ruolo centrale nella corrente anarco-interventista: Massimo Rocca.
Già da tempo staccatosi dall’Anarchismo “ortodosso” perché favorevole all’intervento in Libia e avvicinatosi alla causa del sindacalismo rivoluzionario, Rocca non fu considerato mai un anarchico in senso stretto, ma più un individualista. La sua visione concettuale dell’Anarchismo era estetizzante e fortemente elitaria, concezione cui restò sempre fedele nel tempo. La propaganda per la guerra, oltre che a generare cazzotti e lanci di sedie nelle conferenze da lui tenute, fece sì che i suoi rapporti con l’ “Avanti” di Mussolini si intensificassero fino alla firma degli articoli sul “Resto del Carlino” che spinsero il futuro Duce ad accelerare i tempi del suo strappo interventista.
Il patrimonio ideale dell’anarco-interventismo era, senza ombra di dubbio, un individualismo stirneriano revisionato nella sua concezione velleitaria e amoralistica, volgarizzazione cui Rocca sostituì una valutazione storica e “sentimentale” che sarà principio fondante del “liberismo rivoluzionario” (o “novatorismo”). Fu questo individualismo rivoluzionario che, oltre a rappresentare un riferimento ideale, fece anche da collante tra gli anarco-interventisti e le correnti più radicali della cultura italiana, prime fra tutte le avanguardie futuriste il cui ruolo nella campagna interventista fu tutt’altro che marginale.
Con l’avvento del conflitto si assistette a un allargamento dei magli coesivi tra le varie individualità anarco-interventiste che generò un periodo di caos interno. Così, mentre la Rygier puntava (non riuscendo nell’intento) a far confluire nel Partito Repubblicano Italiano (PRI) il movimento, Rocca sposava nel 1916 le rivendicazioni dei nazionalisti su Istria e Dalmazia, e da questo momento in poi si assistette al suo totale distacco dal sinistrismo e al suo progressivo approdo verso un conservatorismo “illuminato”.
La fine del conflitto ristabilì ordine e riserrò i magli precedentemente allentati. Alcuni esponenti del movimento, come la Rygier, sparirono nell’ombra, altri riallacciarono i contatti con l’Anarchismo “ortodosso”. Altri ancora, come Gioda, Malusardi e Rocca, aderirono al nascente movimento fascista, occupando un ruolo di rilievo al suo interno.
L’avvicinamento di Rocca al Fascismo fu dovuto a comunanza di posizioni in primis sulla questione adriatica, e in secundis sulla sua concezione politico-economica, che si configurava come un misto di liberismo, sindacalismo e produttivismo di stampo mussoliniano. Al pari di Mussolini, anche Rocca auspicava una «matura collaborazione tra capitale e lavoro» volta all’emancipazione dei lavoratori tramite la compartecipazione al ciclo produttivo. Compito della borghesia era mostrarsi autentica classe dirigente capace tanto di opporsi al bolscevismo dilagante quanto di responsabilizzare il proletariato. Difensore dell’ordine monarchico, Rocca intravisava nell’attuale situazione politica la sopraffazione della burocrazia sulla borghesia, e il suo auspicio era quello che si realizzasse una rivoluzione, compiuta la quale, la borghesia aveva l’obbligo di realizzare un rivolgimento aristocratico della società italiana. Approvava lo Squadrismo come strumento di difesa contro le prepotenti orde bolsceviche, e vedeva una forma di dittatura pro tempore l’unica soluzione di governo capace di far cessare “ l’orgia di tutti i disordini”.
Altro “anarco-fascista” fu Mario Gioda che, con l’ex sindacalista rivoluzionario Attilio Longoni, fu tra i promotori del Fascio di combattimento torinese del quale assunse la segreteria. Per Gioda il Fascismo doveva essere l’antipartito, motivo per il quale desiderò che al Fascio torinese accorressero tutte le forze «sane, giovani, italiane» senza distinzione di parte o colore politico, individuando il nemico non nel proletariato ma nel bolscevismo. Tuttavia, nonostante il suo punto di vista fosse volto al superamento delle logiche destra/sinistra, il Fascio torinese fu sempre inclinato verso destra (salvo una parentesi in cui si tentò una più ampia apertura verso i lavoratori delle fabbriche) al punto che la leadership di Gioda fu sostituita, nel maggio del 1920, dal monarchico De Vecchi (in foto).
Altra interessantissima personalità anarco-interventista fu Edoardo Malusardi, che nel Fascio veronese occupò un ruolo di primo piano fondando anche il giornale “Audacia”. Proveniente dall’esperienza fiumana, Malusardi aveva come riferimenti la Carta del Carnaro e il Sindacalismo Rivoluzionario di Corridoni. Il Fascismo doveva essere, a detta sua, antimonarchico e sensibile alla questione sindacale, puntando a far crescere il valore dei lavoratori in termini tecnico-intellettuali. Riguardo agli scioperi, la sua concezione era quella di prendere decisioni “volta per volta”. Godendo del rispetto e della compattezza del Fascio veronese intorno alla sua figura, Malusardi fu l’unico che disertò il Blocco Nazionale scaturito dall’unione tra i Fasci di combattimento e l’Associazione Liberale Democratica, che si venne a creare in vista delle elezioni del 1921. Questa coerente scelta gli valse l’assenso di Mussolini che si complimentò con lui per aver agito «fascisticamente» poiché, se mancavano «certe elementari condizioni di probità politica», necessitava «non bloccare […] ma sbloccare».
Rimanendo sempre un “novatore”, differentemente da Rocca che andava sempre più sintonizzandosi su frequenze conservatrici, Malusardi riaffermò sempre la sua fede sindacalista intendendola su parametri di sindacalismo/corporativismo dannunziano, fede la sua che lo portò anche a criticare apertamente le politiche del partito (si compì nel mentre la trasformazione del movimento in Partito Nazionale Fascista PNF) dal quale, però, non perse mai il rispetto.
Compiuta la rivoluzione fascista (Marcia su Roma, 28/10/1922) iniziò per gli anarco-interventisti il periodo revisionista.
Il primo ad esprimersi fu Malusardi che rilevò lo Squadrismo, legittimo e giustificabile nel periodo movimentista e pre-rivoluzionario, ora da disciplinare in virtù di una ricostruzione sana e legale dello Stato: «lasciate stare, dunque, o amici, il manganello, l’olio di ricino, la gradassata inutile, e chiedete invece delle biblioteche e delle scuole di cultura».
Rocca, dal canto suo, fece propria la concezione bottaiana di sostituzione del vecchio ceto dirigente fascista con una nuova élite, e fu proprio con Bottai che iniziò una collaborazione scrivendo articoli su “Critica Fascista”. Uno di questi mise Rocca in aperta polemica col fascista intransigente Farinacci (in foto), il quale vedeva nelle teorie revisioniste una minaccia a quel Fascismo provinciale da lui considerato “l’anima pura” della fase movimentista e rivoluzionaria. In virtù di una siffatta visione, il Fascismo delle province meritava l’immunità da ogni tipo di attacco o revisione. La risposta di Rocca fu esageratamente prosopopeica e suonò così: il rassismo era un fenomeno che andava superato. Essendoci ora un governo e una legge, anche il più anziano e autorevole fascista che fosse contravvenuto ad essa meritava la galera.
Superato un periodo di sospensione a seguito di queste dichiarazioni, i toni del revisionismo di Rocca si fecero più filosofici e concettuali, ed ebbero l’effetto di far allontanare l’opinione pubblica dalla sua “battaglia”, che veniva ora percepita come una “bizzarria intellettuale” e nulla più.
Nell’aprile del 1924 Rocca riaprì un fronte revisionista di stampo accusatorio sia nei confronti del Fascismo provinciale che verso il neo ministro dell’economia De Stefani, accusato di corruzione. In realtà l’accusa verso De Stefani non avvenne mai in maniera diretta, e questa vicenda appare ricca di equivoci; tuttavia questa seconda “ondata revisionista” costò a Rocca l’espulsione dal PNF.
Nel 1925 lasciò l’Italia per la Francia. Qui mantenne nei confronti del regime un atteggiamento altalenante pur non dichiarandosi mai antifascista.
Il primo tra i vari interventi “eterodossi” fu un articolo di Mario Gioda per il periodico “Volontà”, nel quale veniva notato l’improvviso e devastante fallimento dell’Internazionale e veniva dichiarata la necessità che, in caso di invasione austriaca dell’Italia, anche gli anarchici impugnassero le armi. A questo primo intervento seguì quello della “già paladina dell’antimilitarismo” Maria Rygier che in un altro articolo, questa volta per “Il libertario” di La Spezia, si entusiasmò per la fine della triplice alleanza e auspicò la guerra. La presa di posizione della Rygier non fu che la prefazione del “Manifesto degli anarchici interventisti” di cui ella stessa fu ispiratrice. Tra i firmatari dell’appello, oltre a esponenti del sindacalismo, a socialisti dissidenti e ai repubblicani, figurava una personalità che rivestirà un ruolo centrale nella corrente anarco-interventista: Massimo Rocca.
Già da tempo staccatosi dall’Anarchismo “ortodosso” perché favorevole all’intervento in Libia e avvicinatosi alla causa del sindacalismo rivoluzionario, Rocca non fu considerato mai un anarchico in senso stretto, ma più un individualista. La sua visione concettuale dell’Anarchismo era estetizzante e fortemente elitaria, concezione cui restò sempre fedele nel tempo. La propaganda per la guerra, oltre che a generare cazzotti e lanci di sedie nelle conferenze da lui tenute, fece sì che i suoi rapporti con l’ “Avanti” di Mussolini si intensificassero fino alla firma degli articoli sul “Resto del Carlino” che spinsero il futuro Duce ad accelerare i tempi del suo strappo interventista.
Il patrimonio ideale dell’anarco-interventismo era, senza ombra di dubbio, un individualismo stirneriano revisionato nella sua concezione velleitaria e amoralistica, volgarizzazione cui Rocca sostituì una valutazione storica e “sentimentale” che sarà principio fondante del “liberismo rivoluzionario” (o “novatorismo”). Fu questo individualismo rivoluzionario che, oltre a rappresentare un riferimento ideale, fece anche da collante tra gli anarco-interventisti e le correnti più radicali della cultura italiana, prime fra tutte le avanguardie futuriste il cui ruolo nella campagna interventista fu tutt’altro che marginale.
Con l’avvento del conflitto si assistette a un allargamento dei magli coesivi tra le varie individualità anarco-interventiste che generò un periodo di caos interno. Così, mentre la Rygier puntava (non riuscendo nell’intento) a far confluire nel Partito Repubblicano Italiano (PRI) il movimento, Rocca sposava nel 1916 le rivendicazioni dei nazionalisti su Istria e Dalmazia, e da questo momento in poi si assistette al suo totale distacco dal sinistrismo e al suo progressivo approdo verso un conservatorismo “illuminato”.
La fine del conflitto ristabilì ordine e riserrò i magli precedentemente allentati. Alcuni esponenti del movimento, come la Rygier, sparirono nell’ombra, altri riallacciarono i contatti con l’Anarchismo “ortodosso”. Altri ancora, come Gioda, Malusardi e Rocca, aderirono al nascente movimento fascista, occupando un ruolo di rilievo al suo interno.
L’avvicinamento di Rocca al Fascismo fu dovuto a comunanza di posizioni in primis sulla questione adriatica, e in secundis sulla sua concezione politico-economica, che si configurava come un misto di liberismo, sindacalismo e produttivismo di stampo mussoliniano. Al pari di Mussolini, anche Rocca auspicava una «matura collaborazione tra capitale e lavoro» volta all’emancipazione dei lavoratori tramite la compartecipazione al ciclo produttivo. Compito della borghesia era mostrarsi autentica classe dirigente capace tanto di opporsi al bolscevismo dilagante quanto di responsabilizzare il proletariato. Difensore dell’ordine monarchico, Rocca intravisava nell’attuale situazione politica la sopraffazione della burocrazia sulla borghesia, e il suo auspicio era quello che si realizzasse una rivoluzione, compiuta la quale, la borghesia aveva l’obbligo di realizzare un rivolgimento aristocratico della società italiana. Approvava lo Squadrismo come strumento di difesa contro le prepotenti orde bolsceviche, e vedeva una forma di dittatura pro tempore l’unica soluzione di governo capace di far cessare “ l’orgia di tutti i disordini”.
Altro “anarco-fascista” fu Mario Gioda che, con l’ex sindacalista rivoluzionario Attilio Longoni, fu tra i promotori del Fascio di combattimento torinese del quale assunse la segreteria. Per Gioda il Fascismo doveva essere l’antipartito, motivo per il quale desiderò che al Fascio torinese accorressero tutte le forze «sane, giovani, italiane» senza distinzione di parte o colore politico, individuando il nemico non nel proletariato ma nel bolscevismo. Tuttavia, nonostante il suo punto di vista fosse volto al superamento delle logiche destra/sinistra, il Fascio torinese fu sempre inclinato verso destra (salvo una parentesi in cui si tentò una più ampia apertura verso i lavoratori delle fabbriche) al punto che la leadership di Gioda fu sostituita, nel maggio del 1920, dal monarchico De Vecchi (in foto).
Altra interessantissima personalità anarco-interventista fu Edoardo Malusardi, che nel Fascio veronese occupò un ruolo di primo piano fondando anche il giornale “Audacia”. Proveniente dall’esperienza fiumana, Malusardi aveva come riferimenti la Carta del Carnaro e il Sindacalismo Rivoluzionario di Corridoni. Il Fascismo doveva essere, a detta sua, antimonarchico e sensibile alla questione sindacale, puntando a far crescere il valore dei lavoratori in termini tecnico-intellettuali. Riguardo agli scioperi, la sua concezione era quella di prendere decisioni “volta per volta”. Godendo del rispetto e della compattezza del Fascio veronese intorno alla sua figura, Malusardi fu l’unico che disertò il Blocco Nazionale scaturito dall’unione tra i Fasci di combattimento e l’Associazione Liberale Democratica, che si venne a creare in vista delle elezioni del 1921. Questa coerente scelta gli valse l’assenso di Mussolini che si complimentò con lui per aver agito «fascisticamente» poiché, se mancavano «certe elementari condizioni di probità politica», necessitava «non bloccare […] ma sbloccare».
Rimanendo sempre un “novatore”, differentemente da Rocca che andava sempre più sintonizzandosi su frequenze conservatrici, Malusardi riaffermò sempre la sua fede sindacalista intendendola su parametri di sindacalismo/corporativismo dannunziano, fede la sua che lo portò anche a criticare apertamente le politiche del partito (si compì nel mentre la trasformazione del movimento in Partito Nazionale Fascista PNF) dal quale, però, non perse mai il rispetto.
Compiuta la rivoluzione fascista (Marcia su Roma, 28/10/1922) iniziò per gli anarco-interventisti il periodo revisionista.
Il primo ad esprimersi fu Malusardi che rilevò lo Squadrismo, legittimo e giustificabile nel periodo movimentista e pre-rivoluzionario, ora da disciplinare in virtù di una ricostruzione sana e legale dello Stato: «lasciate stare, dunque, o amici, il manganello, l’olio di ricino, la gradassata inutile, e chiedete invece delle biblioteche e delle scuole di cultura».
Rocca, dal canto suo, fece propria la concezione bottaiana di sostituzione del vecchio ceto dirigente fascista con una nuova élite, e fu proprio con Bottai che iniziò una collaborazione scrivendo articoli su “Critica Fascista”. Uno di questi mise Rocca in aperta polemica col fascista intransigente Farinacci (in foto), il quale vedeva nelle teorie revisioniste una minaccia a quel Fascismo provinciale da lui considerato “l’anima pura” della fase movimentista e rivoluzionaria. In virtù di una siffatta visione, il Fascismo delle province meritava l’immunità da ogni tipo di attacco o revisione. La risposta di Rocca fu esageratamente prosopopeica e suonò così: il rassismo era un fenomeno che andava superato. Essendoci ora un governo e una legge, anche il più anziano e autorevole fascista che fosse contravvenuto ad essa meritava la galera.
Superato un periodo di sospensione a seguito di queste dichiarazioni, i toni del revisionismo di Rocca si fecero più filosofici e concettuali, ed ebbero l’effetto di far allontanare l’opinione pubblica dalla sua “battaglia”, che veniva ora percepita come una “bizzarria intellettuale” e nulla più.
Nell’aprile del 1924 Rocca riaprì un fronte revisionista di stampo accusatorio sia nei confronti del Fascismo provinciale che verso il neo ministro dell’economia De Stefani, accusato di corruzione. In realtà l’accusa verso De Stefani non avvenne mai in maniera diretta, e questa vicenda appare ricca di equivoci; tuttavia questa seconda “ondata revisionista” costò a Rocca l’espulsione dal PNF.
Nel 1925 lasciò l’Italia per la Francia. Qui mantenne nei confronti del regime un atteggiamento altalenante pur non dichiarandosi mai antifascista.
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